Braibanti, omosessuale dichiarato, fu condannato a 9 anni di carcere.
In suo favore scattò una grande mobilitazione di intellettuali.
"Chiedo una pena esemplare - concluse in crescendo il pm Antonio Lojacono - affinché nessun "professorucolo" domani possa venire a togliere la libertà a un innocente". Dalla gabbia degli imputati, Aldo Braibanti, l'unico imputato ritenuto colpevole del reato di plagio nella storia giudiziaria italiana, si limitò a deglutire alzando il capo.
Così le cronache. Era il luglio del 1968 ed esemplare in effetti arrivò la legnata: 9 anni di carcere, poco meno di quanti ne toccarono ai responsabili del disastro del Vajont con i suoi 2.000 morti. Oggi il "professorucolo", che in quella specie di selvaggia ordalia fu pure definito "pervertitore di spiriti" e "reincarnazione del demonio", ha 85 anni.
Vive tra libri, ricordi e formicai di gesso in un povero appartamento semi-diroccato; da tempo gli è morto il corvo che girava libero per casa e giustamente non ha alcun piacere a restare impiccato, o crocifisso, a quella triste vicenda così remota nel tempo.
Il vitalizio della legge Bacchelli, per il quale si sono battuti parecchi parlamentari (fra i primi Elettra Deiana e Franco Grillini), gli arriva dunque come un assai tardivo risarcimento. Ma nella sua vita, lunga e turbinosa, Braibanti se lo merita anche per tutto il resto: i collage, i quadri, le ceramiche (che piacquero a Giò Ponti, ma che non ha mai voluto vendere), gli studi sul senso d'orientamento delle formiche, oltre alle regie teatrali, radiofoniche e tv. E alle poesie.
Tra queste se ne trova on line una abbastanza recente, "Tempi moderni", che in qualche modo congiunge l'Italia di oggi, smaniosa di "valori", con quell'Italia che l'altro ieri cercò di annichilirlo. E dunque: "Tempi moderni/ tempi della sconfinata arroganza dell'uomo/ tempi di valori vecchi e nuovi per vecchi e nuovi altari sacrificali/ tempi di crociate velenose travestite da missioni invasive...".
Braibanti è stato certamente un eclettico e un irregolare. Ma metterlo sotto accusa e poi condannarlo a nove anni in quanto - come da sentenza - "professava monismo e anarchismo, combatteva la famiglia, la società e lo Stato, disprezzava la scuola e la morale, ripudiava il conformismo dei più perché i più sono persone fisicamente, psichicamente e sessualmente sane", ecco, la storia di chi volle fare di un intellettuale anarcoide e introverso un subdolo "ladro di anime" rappresenta una lezione che vale la pena di ripassare.
Figlio di un medico di Fiorenzuola d'Arda (e fratello di Lorenzo, l'ostetrico e ginecologo che portò in Italia il metodo del parto dolce di Leboyer), in un primo momento azionista, poi comunista, partigiano torturato dai nazi-fascisti a "Villa Triste", dirigente del Fronte della Gioventù con Berlinguer, poi uscito dal Pci, fondatore dei "Quaderni piacentini", alla fine degli anni cinquanta Braibanti mollò ogni consuetudine, borghese o proletaria che fosse, per fare l'artista puro, girando per l'Italia senza certezze né cattedre né stipendio, mosso solo da una vocazione che era anche un sogno di libertà e creatività.
Omosessuale, si legò a due giovani, però maggiorenni, uno dei quali, Giovanni Sanfratello, proveniva da una famiglia molto cattolica. Scandalo nello scandalo: dopo diverse peripezie il padre e il fratello vennero a riprendersi Giovanni per ricoverarlo in una clinica psichiatrica. Ma invece di placarsi, nel 1964 la vicenda divampò davanti alla legge perché i Sanfratello, convinti che fosse stata annientata la volontà del loro congiunto, denunciarono quell'eccentrico personaggio amante delle formiche. Per plagio: fattispecie giuridica introdotta nel periodo fascista e già allora dai contorni piuttosto nebulosi.
Nei mesi precedenti, per la verità, gli avvocati di casa Savoia avevano invano cercato di appioppare il famigerato articolo 603, reato che nel codice penale viene subito dopo il commercio di schiavi, al dotatissimo fusto della dolce vita, l'attore Maurizio Arena, per via della tempestosa love story con la figlia di Umberto, Maria Beatrice detta Titti, con grande spasso del pubblico.
Ma nel caso di Braibanti il processo non fu spassoso per niente. Metterlo alla sbarra, "respingerlo agli Inferi" come invitò a fare un illustre avvocato della parte civile quale era Alfredo De Marsico, fu probabilmente il malaccorto tentativo di regolare i conti con le novità che già premevano sotto il manto sdrucito del perbenismo pre-sessantotto: la "diversità" anche sessuale, il fascino della psicanalisi, le suggestioni beat, hippy e orientaleggianti, le iniziali pratiche anti-autoritarie.
Ma a volte, si sa, la storia non lascia piegare a comando dalle logiche crudeli del capro espiatorio. Così contro la persecuzione di Braibanti, che avendo pure una folta barba sembrava la vittima perfetta, scattò una delle prime mobilitazioni di intellettuali. Ci furono appelli, firme pesanti, Guido Calogero, Alberto Moravia, Elsa Morante. Leopoldo Piccardi indossò di nuovo la toga. Ma a tirare fuori Braibanti dalla galera fu più di ogni altro Marco Pannella e un piccolo drappello di radicali. "Braibanti - scrisse - è il nome dato ad autobiografie più o meno interiori che non osano confessarsi".
Dopo l'appello, il "professorucolo" uscì da Regina Coeli il 5 dicembre del 1969. In una mano la borsa con i suoi effetti personali, nell'altra un formicaio di sua invenzione. Disse solo: "Voglio togliermi subito di dosso questi panni che puzzano di galera". Un demone smagrito e senza barba, lo raffigurò il formidabile cronista di quel processo, Gigi Ghirotti. Nessuno avrebbe mai potuto immaginare che lo Stato, un giorno, avrebbe riconosciuto i suoi torti.